Articolo 3

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

i Documenti

Le questioni attuali

  • Analfabetismo di ritorno, Treccani, Lessico del XXI secolo

    analfabetismo di ritórno locuz. sost. m. – Espressione riferita a quella quota di alfabetizzati che, senza l’esercitazione delle competenze alfanumeriche, regredisce perdendo la capacità di utilizzare il linguaggio scritto per formulare e comprendere messaggi. L’analfabetismo di ritorno ha dunque effetti determinanti sulla capacità di un soggetto di esprimere il proprio diritto alla cittadinanza (dal voto al diritto all’informazione, alla tutela sul lavoro ecc.) e di potersi inserire socialmente in modo autonomo. I semianalfabeti, ossia coloro in possesso della sola licenza elementare, che rappresentano la quota più a rischio di analfabetismo di ritorno, potrebbero non perdere le competenze alfabetiche se il sistema educativo nazionale prevedesse di integrare i piani formativi con esperienze regolari e durevoli di educazione degli adulti. L’analfabetismo di ritorno unito all’analfabetismo funzionale, ossia all’incapacità a usare in modo efficace le competenze di base (lettura, scrittura e calcolo) per muoversi autonomamente nella società contemporanea, nel nostro Paese tocca la quota del 47%. È un fenomeno che ha dimensioni differenti in base alle fasce di età e al territorio di residenza, ma che comunque dipinge un quadro allarmante. Il Sud e le Isole a oggi rappresentano la quota più imponente di analfabetismo, nonostante abbiano tassi di disoccupazione più elevati per i profili dei laureati. Questo fatto ci invita a riflettere non solo sulla fuga dei cervelli che dal Sud si trasferisce al Nord per cercare lavoro (il 75% dei quali è laureato), ma sul rapporto che c’è tra il conseguimento del titolo di studio e il collocamento lavorativo che, nel nostro Paese, è a svantaggio di processi di formazione lunghi e specialistici. Il fenomeno dell’analfabetismo di ritorno comprende anche lo sviluppo e la mancata diffusione di nuove competenze alfabetiche (ossia la decifrazione e l’uso di simboli convenzionalmente riconosciuti) dalle quali rimangono tagliate fuori generazioni intere di alfabetizzati: pensiamo alle competenze informatiche di base che, oggi più di ieri, accompagnano la comunicazione globale e dalle quali in Italia è escluso il 50% della popolazione adulta. Secondo ricerche internazionali solo il 20% della popolazione adulta italiana possiede gli strumenti indispensabili per orientarsi con efficacia e in modo autonomo nella vita di tutti i giorni. Il restante 80% se sa leggere e scrivere lo fa con difficoltà e solo per brevi elaborati, ha difficoltà nell’analisi di un grafico o addirittura non sa fare niente di tutto ciò. Negli anni Cinquanta del 20° sec. l’analfabetismo in Italia toccava la quota del 30% ed è evidente che l’espansione senza precedenti dell’istruzione scolastica nel secolo passato ha portato risultati tangibili, visto che gli analfabeti assoluti sono scesi nel nostro Paese al 5%. È altrettanto vero però che il confronto con gli altri paesi del mondo industrializzato ci pone più in alto del solo Messico: l’indiscusso abbassamento di livello culturale dei diplomati e dei laureati, l’analfabetismo di ritorno e quello funzionale sono dati preoccupanti per la società nel suo complesso, frutto dell’antintellettualismo dominante e soprattutto della mancanza di investimenti qualitativi in tutti i rami dell’istruzione pubblica. In un Paese nel quale il numero di persone considerate a rischio alfabetico raggiunge l’80%, e il livello culturale medio subisce una flessione anche nelle caratteristiche della sua classe dirigente, emergono nuovi problemi anche di rappresentanza democratica. In una società sempre più complessa e globale, la cultura e più in generale la conoscenza della realtà dovrebbero crescere, e non decrescere, per riuscire a garantire una capacità di risposta adeguata ai nuovi problemi.

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  • Analfabetismo funzionale, Wikipedia, l'enciclopedia libera.
  • Chiara Saraceno – Le élite e gli angeli vendicatori del popolo, La Repubblica, 29/01/2019

    Mi sembra che i termini del dibattito così come sono stati impostati inizialmente da Baricco - “élite” contro “popolo”, o viceversa - siano mal posti e fuorvianti da diversi punti di vista. Uno lo ha ben argomentato Mazzucato. Nel ragionamento di Baricco si rappresenta un bel tempo antico in cui le élites, pur badando ai propri interessi, si occupavano anche del bene comune, garantendo un tenore di vita decente al “popolo”, alla “gente comune”. Giustamente Mazzucato ricorda come orari di lavoro, salari decenti, diritti sociali, welfare, istruzione pubblica, sono stati l’esito di conflitti sociali anche aspri, a loro volta resi possibili ed efficaci dalla capacità di mobilitazione delle organizzazioni dei lavoratori e di altri movimenti sociali, ad esempio quello delle donne, che via via sono apparsi sulla scena sociale ed hanno riformulato i termini del patto sociale, modificando equilibri e priorità. Chi si occupa dell’aumento della disuguaglianza segnala come tra le sue cause vi sia certo l’appropriazione da parte di pochi dei benefici dello sviluppo tecnologico, una fiscalità favorevole ai ricchi, un capitalismo di tipo sempre più “estrattivo”.

    Ma vi è anche l’indebolimento delle organizzazioni di difesa degli interessi degli altri contraenti del patto sociale, in primis dei sindacati: della loro capacità di contrastare con sufficiente efficacia i meccanismi che oggi consentono enormi accumulazioni di ricchezza e disuguaglianze un tempo impensabili nella remunerazione del lavoro e che sono al cuore della denuncia dell’ultimo rapporto Oxfam. Non credo che questo indebolimento possa essere imputato ad un incorporamento delle leadership sindacali nell’élite, facendo  loro perdere il contatto con gli interessi di chi dovevano rappresentare. Piuttosto è il risultato di mutamenti nei processi economici e finanziari che hanno spiazzato i rapporti tra capitale e lavoro, quindi anche le forme tradizionali di rappresentazione e negoziazione degli interessi in conflitto. C’è stata una mancanza di comprensione tempestiva di questi mutamenti, quindi anche della messa a punto di strumenti adeguati di contenimento e contrasto. C’è stata anche, a sinistra, l’illusione che la meritocrazia fosse uno strumento democratico e non la difesa monopolistica di privilegi trasmessi da una generazione all’altra.

    Ma è proprio la dicotomizzazione della società tra élite e popolo che mi sembra sbagliata. Non è diversa dalla rappresentazione che danno della società i populisti e che fa gioco alla loro narrazione. Una società divisa in due gruppi contrapposti, ma internamente omogenei, senza distinzioni e senza conflitti di interessi o di visioni del mondo.  Fa parte di questa visione dicotomica anche l’identificazione della categoria degli “intellettuali” come appartenenti all’élite. Come se non ci fossero distinzioni di potere, ricchezza, pratiche, visioni del mondo, quindi anche conflitti tra chi esercita una professione intellettuale e tra questi e parti dell’élite. Tra chi  fa ricerca e mette continuamente alla prova le proprie tesi e i propri risultati e chi produce narrazioni adatte al clima dei tempi, tra chi si identifica con il potere di turno e chi con coloro che lo contestano, tra chi fa semplicemente meglio che può il proprio mestiere e chi ha anche un ruolo pubblico, tra chi - penso agli insegnanti - ogni giorno si confronta con il problema di come trasmettere conoscenza e allo stesso tempo coltivarne il desiderio e la curiosità e chi amministra nozioni.  Come se anche chi contesta le élite non avesse, e producesse, i propri intellettuali.

    Anche “la gente”, “il popolo”, in questa narrazione dicotomica appare come una massa indistinta, tutta accomunata dalla opposizione alla “élite”, cui i populisti aggiungono per buona misura l’avversione per gli “immigrati” e in generale gli stranieri.   Quasi che non ci fossero differenze di interessi tra gruppi sociali, tra livelli di reddito e gradi di sicurezza economica, tra il piccolo imprenditore o commerciante e l’insegnante e tra questi e l’operaio a rischio di essere reso obsoleto dalla tecnologia, tra chi ha più o meno istruzione, ha un contratto stabile o un lavoro precario, tra chi  - per stare in Italia - abita al Nord e chi al Sud, tra chi può sperare solo nel reddito di cittadinanza e chi  può permettersi di andare in pensione a quota 100. In una riedizione  semplificata della lotta di classe marxista, la società sembra divisa solo in due classi (ora tradotte in élite e popolo) e non distribuita lungo una stratificazione articolata (e relativamente stabile, come mostrano i dati sulla scarsa mobilità sociale intergenerazionale), resa ancora più complessa da altre differenze e disuguaglianze: in base ai valori e alle visioni del mondo, al sesso, all’avere o meno figli o persone dipendenti di cui doversi preoccupare, il vivere in una grande città o in un piccolo comune delle aree interne e così via.

    Ignorare queste differenze, non aiutare a vederle ed elaborarle, è utile solo a chi, per costruire la propria base di potere, ha bisogno di proporsi come vendicatore e unico interprete di una massa indifferenziata, rivendicando l’anti-intellettualismo come una virtù popolare e l’esercizio critico come decadenza morale. Ma non è utile a capire che cosa è necessario fare e con quali soggetti sociali, per cambiare davvero i meccanismi che producono diseguaglianze inaccettabili, essendo consapevoli dell’esistenza di interessi in conflitto non tanto tra élite e popolo, quanto al loro interno.

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  • Gustavo Zagrebelsky – Né élite né gente, democrazia è unire la società, La Repubblica, 29/01/2019

    L’articolo di Alessandro Baricco E ora le élite si mettano in gioco ha dato impulso a un dibattito intorno a quest’affermazione: tra le élite e la gente si è rotto “un certo patto”, e la gente adesso ha deciso di fare da sola. I commenti che ne sono seguiti hanno assunto queste proposizioni come punto di partenza obbligato. A me pare, tuttavia, che contengano qualcosa di ambiguo, forse di fuorviante. Provo a chiarire i perché di un disagio non solo concettuale. I termini élite, gente, patto e rottura del patto, fare da sé appartengono, mi sembra, a un linguaggio non adeguato al nostro tempo.

    La parola élite suggerisce l’idea di un ceto ristretto di “ottimati”, cioè di un’aristocrazia di “eletti” (“molti sono i chiamati, pochi gli eletti”): élite viene da lì e indica la parte migliore, i pochi che si distinguono dalla parte peggiore, i molti. I migliori possono legittimamente pretendere di avere più diritti, di sovrastare i molti, i peggiori. Costoro sono definiti con una parola negativa: “la gente”. Con gente intendiamo l’insieme di individui privi di qualità, uomini-massa simili gli uni agli altri nell’essere mossi da interessi egoisti e di breve durata, orgogliosi della propria mediocrità, in realtà frustrati, aggressivi e violenti nei confronti dei diversi da loro. La loro cultura è fatta di luoghi comuni, di pregiudizi, di vocaboli vuoti ai quali si affezionano per mascherare la propria ignoranza. Il loro desiderio predominante è di soppiantare gli uomini superiori e da qui nasce “la ribellione delle masse”.

    Quest’espressione è il titolo d’un libro pubblicato nel 1930, un tempo in cui i fascismi incombevano pressoché in tutta Europa. Il suo autore, lo spagnolo José Ortega y Gasset, descrive magnificamente il degrado della democrazia dovuto al prevalere di “quella gente”, degrado che avrebbe finito per renderla invisa ed esposta inerme ai suoi nemici. Questi pensieri facevano parte d’una ideologia e d’una teoria politica, la teoria delle élite, condivisa da ciò che ancora restava della gloriosa tradizione liberale ottocentesca. Gli elitisti vedevano con preoccupazione l’ascesa politica delle masse, ascesa che non avrebbe portato all’estensione, ma al tracollo della democrazia a favore dei demagoghi che avessero saputo meglio accarezzare gli impulsi irrazionali ed emotivi della gente, oggi diremmo i populisti. Così si proponevano come garanti della stabilità e dell’ordine politico, e pensavano di poter offrire questa garanzia per stipulare un patto con la gente comune: solo che era un patto di sudditanza, destinato a essere rotto non appena se ne fosse presentata l’occasione, cioè molto presto.

    Oggi siamo ancora, e lo saremo sempre, alle prese con la questione della qualità della democrazia. Tra i tanti suoi problemi, questo è forse il maggiore. Ma crediamo che lo si possa affrontare usando ingredienti come élite e gente? Quando si tratta di definire come è composta l’élite, si mettono in un unico calderone, per esempio, medici, universitari, avvocati, politici, preti, giornalisti e artisti di successo, imprenditori e dirigenti politici, ricchi e super-ricchi, quelli che allo stadio vanno in tribuna e “quelli che hanno in casa più di cinquecento libri”. Capiamo di che cosa parliamo? Ci sono cose troppo diverse: professionisti, dirigenti politici, imprenditori, privilegiati, benestanti. Diciamo: sono coloro che si pongono nella parte alta della piramide sociale e, qualificandosi élite, pretendono che ciò basti perché debba riconoscersi loro un plusvalore morale. Quest’insieme è piuttosto l’establishment. Come “gente” suona male presso le élite, così “establishment” - o se vogliamo usare la nostra lingua: casta di intoccabili - suona male presso la gente.

    D’altra parte, può farsi il medesimo discorso rovesciandolo. La gente non è solo egoismo, irrazionalità, emotività, volgarità, violenza, ecc. C’è questo, ma anche altro. Spesso troviamo saggezza, pazienza e, soprattutto, conoscenza ed esperienza pratiche, concretezza, spirito di solidarietà: cose che difficilmente si trovano nell’establishment. Come nelle élite, anche qui c’è un miscuglio di cose buone e cattive. Dunque, tra élite e gente, non è possibile alcun patto, e non perché ci sia insanabile inimicizia, ma per la semplice ragione che non si saprebbero individuare le parti separando vizi e virtù. Sono mescolati e tutti ne sono responsabili. Tra parentesi: i patti possono esserci nella distribuzione del potere sociale e si chiamano compromessi, come è stato il cosiddetto compromesso social-democratico. Ma questo riguarda altra cosa, non la democrazia e la sua qualità.

    Insomma, a nessuno è precluso di essere o dirsi élite; ma nessuno è immune dall’essere o essere detto gente o gentaglia. Ciascuno di noi è al tempo stesso, per qualche aspetto, élite e per qualche altro gente. Questa è la democrazia, l’unico regime non manicheo. Sono i regimi non democratici, quelli che separano a priori i buoni e i cattivi, quelli degni di governare e quelli cui tocca ubbidire. Onde quando, per esempio, certi risultati elettorali non ci soddisfano, anzi ci disgustano, non diciamo: ha vinto la feccia, perché ciò autorizza a sentirci rispondere: feccia sarai tu. È purtroppo quello che accade: ci si scontra davanti agli elettori con l’intento di squalificarci reciprocamente. Il motto dilagante di questo modo degradato d’intendere il dibattito pubblico è: “Si vergogni”.

    Tra le “promesse non mantenute” della democrazia, più di trent’anni fa Norberto Bobbio indicava “il cittadino non educato”, espressione che dice in modo misurato l’individuo-massa, di cui sopra. L’idea degli ottimisti secondo i quali l’esercizio della democrazia è la migliore scuola di democrazia fu a lungo uno degli argomenti preferiti a favore del suffragio universale e, oggi, a favore del voto agli stranieri residenti. Guardiamoci intorno. L’esperienza, dicono i pessimisti, dimostra piuttosto il contrario. La democrazia (come del resto tutte le forme di governo) si logora con l’uso. Non solo aumenta l’apatia (l’astensionismo), ma prevalgono gli istinti più bassi, l’ignoranza pericolosa, l’egoismo. Per questo, in questo autunno della democrazia, le proposte che circolano sono piuttosto a favore del restringimento del diritto di voto togliendolo a chi lo userebbe pericolosamente, o limitandone il più possibile l’esercizio. Vecchissima storia, che si ripresenta oggi sotto un neologismo piuttosto ripugnante, la epistocrazia, il governo di coloro che sanno, degli esperti, dei dotti: un modo per riverniciare a nuovo il potere dei pochi a danno dei molti.

    Che dire? Se dovessi basarmi su quel che vedo, direi che nulla è scontato. Il diffuso pessimismo è fronteggiato, in maniera che mi pare crescente, da un desiderio di comprendere che si manifesta nelle aule scolastiche, perfino nelle piazze e in ogni occasione d’incontro su temi di cultura politica. Qui compare quel pezzo di élite che è indicato come coloro che hanno in casa cinquecento libri. A questi spetta il compito e la responsabilità concreta di cucire la società, di evitare che, per l’appunto, essa si divida in élite e gente.

    Ricordo che in un passo dei Quaderni di Antonio Gramsci, in cui si discuteva il nostro tema, partendo dalla domanda: come si può ammettere che il voto di Benedetto Croce valga come quello del pastore analfabeta transumante nel centro della Sardegna, si rispondeva così: il pastore non ha nessuna colpa, la colpa è di quelli - politici e intellettuali - che non hanno saputo raggiungere il pastore per imparare qualcosa da lui e per insegnare qualcosa a lui. Il che non si può fare se si crede che la cultura sia tutta racchiusa nelle biblioteche.

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  • Paolo Di Paolo – Grazia Speranza: "Troppa enfasi sulle élite in crisi, il vero nodo è la disuguaglianza", La Repubblica, 22/01/2019

    Grazia Speranza insegna Ricerca operativa all’Università di Brescia, di cui è prorettrice vicaria. La Ricerca operativa sviluppa metodi matematici, modelli algoritmici, per supportare decisioni complesse. Del dibattito sulle élite aperto da Alessandro Baricco su Repubblica discute anzitutto l’uso della definizione: «Non è una classe unica, ho l’impressione che sia più frastagliata ed eterogenea di quanto il termine riesca a indicare. E nel dibattito sono state privilegiate, mi sembra, chiavi di lettura di matrice socio-politica rispetto a chiavi di lettura di matrice economica. Con il rischio che si perda un po’ di concretezza».

    Qual è il punto?
    «Non basta considerare gli effetti della recente crisi economica, che pure hanno lasciato nei cittadini di gran parte dell’Occidente una memoria traumatica, la sensazione di un disagio immeritato, di un blocco delle possibilità di miglioramento della condizione socio-economica. Temo che si sottovaluti ancora uno squilibrio fondamentale: la macroscopica evidenza di una società in cui una piccolissima percentuale di popolazione detiene un’altissima e sproporzionata percentuale di ricchezza».

    Intende dire che la questione del rapporto fra élite e “popolo” è meno rilevante rispetto a questo dato di fatto?
    «Intendo dire che occorre essere onesti. L’emersione e la spinta di quelli che per decenni abbiamo chiamato “paesi in via di sviluppo”, le questioni demografiche (l’Occidente che invecchia vertiginosamente), la prospettiva tutto fuorché astratta degli stravolgimenti climatici: tutto questo, rispetto al disagio delle vecchie cosiddette élite, mi pare ben più decisivo. La verità è che, a queste latitudini, non stiamo affrontando radicalmente i problemi più seri; manteniamo posizioni, senza il coraggio e la determinazione nel fare un salto. E i piccoli passi sono spesso regressivi: larga parte della classe politica si accontenta di indicare nemici».

    O capri espiatori.
    «Che il cittadino sfiduciato istintivamente cerchi i responsabili del proprio disagio nell’orizzonte visibile, si può comprendere. Ma chi governa può alimentare questa illusione? E, anziché contribuire alla riflessione, semplificare in modo brutale, pericoloso quanto rassicurante? Possibile che nel 2019 si ragioni come nell’era dei mammut? D’altra parte, potenziali colpevoli non è difficile trovarne: la casta dei vecchi politici, la finanza, la globalizzazione, gli immigrati, l’Europa. Ognuno sceglie ciò che sente in modo più forte. Ma serve la capacità e ancor prima la volontà di leggere seriamente fenomeni che sono complessi e interconnessi, anziché assecondarne la sistematica distorsione percettiva. In questo senso, puntare il dito contro una generica élite — supponendo che sostituendola si risolvano i problemi — è un’altra semplificazione».

    E il Game — così Baricco chiama la rivoluzione digitale — come entra in questo quadro?
    «Presentata come miracolosa, la rivoluzione digitale non ha portato tutti i benefici che sembrava promettere. I computer non sono ancora arrivati sulle scrivanie di tutti, come volevano i pionieri del “Game”: semmai, sono arrivati gli smartphone nelle tasche. Non è esattamente la stessa cosa, e comunque è accaduto in poco più di un decennio, un tempo brevissimo. L’impatto della Rete nelle nostre vite è eclatante, ma nei fatti non l’abbiamo ancora assorbito. C’è da lavorare».

    In quale direzione?
    «Quella dello studio. In questo, naturalmente, concordo con Baricco. La formazione tradizionale non basta più. L’informazione destrutturata dei social media di sicuro accentua la confusione fra nozione e competenza effettiva. Il problema, però, non è tanto che la voce di un professore universitario come me conta meno rispetto al passato, ma che un cittadino, magari anche diplomato, o un manager aziendale laureato non si accorgano di avere in mano strumenti insufficienti per capire le cose».

    La matematica come può aiutare?
    «Anche a non pensare a certi fenomeni come “magici”. Gli algoritmi — centrali nel web come nello sviluppo delle nanotecnologie, nella robotizzazione e nell’intelligenza artificiale — di per sé non sono cattivi, mi creda».

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  • Mariana Mazzucato – Chi manipola la collettività è la vera élite, La Repubblica, 13/01/2019

    Nel suo articolo dell’11 gennaio Alessandro Baricco riassume un dibattito largamente diffuso e trattato in diversi ottimi recenti libri come Strangers in their own land di Arlie Hochschild. Secondo Baricco, la crisi che stiamo attraversando è innanzitutto una crisi di fiducia delle masse nei confronti delle élite. Mi pare una lettura semplificante. Se non comprendiamo chi sono e come funzionano le élite, rischiamo di consolidarne le posizioni e il potere. Quindi, raccogliendo la sua sfida a “non farci fottere dalla apparente semplicità delle cose”, proviamo a guardare meglio dentro la sua analisi.

    Baricco afferma che la democrazia funziona quando le élite, pur proteggendo e incrementando i loro privilegi, riescono magnanimamente a dispensare una forma di convivenza accettabile per le masse. Non credo sia così. La democrazia ha creato società meno inique quando gli “esclusi” hanno saputo rappresentarsi e strappare alle élite concessioni che hanno reso meno penosa e più piena la vita di tutti (spesso anche delle élite stesse). Ma qui non c’è niente di deterministico. Ci sono voluti condizioni decenti in fabbrica, il sistema sanitario nazionale, il voto alle donne, anche qui si potrebbe andare avanti per pagine... non sono stati graziosamente concessi dalle élite. Anzi, in quasi tutti questi casi, le élite hanno pervicacemente tentato di negare questi diritti.

    Sono state conquiste costate carissime ai milioni che hanno saputo organizzarsi, rappresentarsi, creando piattaforme comuni e forme di dibattito, ma anche di lotta. Certo, è vero che queste conquiste si sono consolidate quando una parte delle classi agiate le ha riconosciute come giuste e non più rimandabili.

    Ma c’è voluto il sangue. E, ancora più importante, dopo aver ottenuto il minimo dei diritti necessari, queste “non élite” hanno anche saputo tenerli in vita e innovarli, riempirli di senso. Prendiamo la scuola per tutti o il sistema sanitario nazionale. Milioni di donne e uomini, che non sono élite e a cui non interessa essere élite, hanno lavorato e continuano a lavorare giorno dopo giorno nelle scuole e negli ospedali, combattendo con mezzi limitati contro le inerzie sfinenti dell’ignoranza e della malattia, contro l’ignavia dei colleghi scansafatiche e le furberie degli amorali, per far sì che quelle istituzioni collettive fossero bene comune e dispensassero il meglio per tutti. Dove sono questi milioni nell’equazione di Baricco?

    È ristretta la veduta di chi considera solo le élite che incontra ogni giorno, in quel recinto protetto che Baricco pennella così bene, e l’oklos, la massa che sbraita in tv con i gilerini gialli. Guardando così, sembra che tutto stia avvenendo irrevocabilmente, come per influsso astrale. Nel mio libro Il valore di tutto parlo del bisogno di riscoprire il valore collettivo, proprio per lottare contro la logica delle disuguaglianze che hanno creato rabbia nella “gente”.

    L’odio per le élite, l’averne abbastanza, hanno ragioni profonde, inclusa la sequenza dei trattati comunitari, fatti trangugiare come oche da ingrasso ai cittadini europei.

    Ma questo odio è stato attizzato, rinfocolato e indirizzato da chi scientemente ha costruito una narrazione semplificatoria, ma articolata, e ha capito prima di tutti che la diffusione planetaria del web avrebbe permesso di registrare ed elaborare miliardi di frammenti, componendoli in tanti ritratti individuali. Così da poter inoculare quella narrazione nei soggetti predisposti, con gli ingredienti giusti e il dosaggio necessario ad indirizzare l’odio e quindi usarlo. Il problema non è che un italiano su due stia su Facebook: ma che cosa c’è dentro Facebook e come lo usa chi lo controlla. E non succede tutto a Cupertino. Il Movimento 5 Stelle, che continuiamo ad analizzare come movimento ultramoderno e populista,è controllato da una piattaforma digitale posseduta in termini pressoché feudali da una famiglia, i Casaleggio, che secondo lo statuto del movimento può farne ciò che vuole.

    Prendiamo l’Europa. L’omeopatia dell’odio che passa attraverso Facebook eviterà sempre di raccontare come l’Unione Europea sia anche una forza collettiva che ha migliorato le condizioni di lavoro, imposto regole severe contro lo strapotere delle multinazionali, cercato di limitare la devastazione dell’ambiente, investito largamente nella costruzione di una cultura comune, speso miliardi per la ricerca scientifica collaborativa e collettiva laddove nessun soldo privato si arrischierebbe, laddove però si trovano i risultati più inattesi e dirompenti per curare.

    E, soprattutto, nasconderà che questi progressi ottenuti non sono stati una gentile concessione delle élite, ma sono frutto della pressione continua di cittadini, movimenti, gruppi ecologisti, avvocati dei diritti umani. Solo alla fine di un processo, fatto di lotte, sconfitte e vittorie, queste proposte diventano leggi e regolamenti. Intendiamoci: la Ue ha fatto molti errori – fra cui l’ossessione di ridurre il deficit – non è riuscita a farsi sentire vicina alla vita quotidiana.

    Chi ha creato gli strumenti di manipolazione collettiva non l’ha fatto per il piacere di veder ballare i burattini. L’ha fatto perché è pagato da persone che hanno interessi economici precisi. Da persone che vedono nell’Unione Europea uno dei pochi ostacoli all’espansione planetaria del capitalismo senza regole. Infangare la Ue rende soldi perché un’istituzione pubblica indebolita e insicura di sé sarà più prona ai desiderata della grande industria, come pare già stia succedendo nell’agricoltura. E di che cosa parliamo quando parliamo di “usare i dati”? I dati possono essere usati per controllare e manipolare, ma possono essere anche adoperati per diffondere il bene comune. Prendiamo l’esempio di Barcellona, dove la sindaca Ada Colau con il progetto Decode sta provando a usare i dati sugli spostamenti dei cittadini generati da app come Citymapper per informare e disegnare un sistema di trasporto pubblico migliore per tutti. O i movimenti che, in molti paesi, vogliono che i dati sulla salute personale vengano usati non per arricchire le case farmaceutiche, ma per migliorare il servizio sanitario. Tutte queste nuove soluzioni arrivano alla Commissione europea e vengono poi discusse dalla DG- Connect, che elabora le politiche in materie di digitale e innovazione. Ma non sono le élite che le hanno proposte. Sono i movimenti, grazie a questa nuova ed evoluta forma di interazione tra élite e cittadini. La soluzione di Baricco è “lasciare il telefono a casa, camminare, e affidarsi alle intelligenze del Game”. No. Bisogna guardare queste nuove forme di relazione, capirle e moltiplicarle. Smettere di usare parole come “gente” e pensarci invece tutti come “cittadini”. Smettere di descrivere l’Unione Europea come un pachiderma sonnacchioso, irrazionale e imperscrutabile, e provare veramente a capire come funziona, denunciare le sue sclerosi e proporre soluzioni diverse.

    E lottare, con o senza telefonino, per questo.

    Mariana Mazzucato è professoressa di Economia alla University College London.

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  • Michele Smargiassi – Umberto Eco, i social, gli imbecilli e cosa disse veramente quel giorno, La Repubblica, 05/01/2019

    Una frase pronunciata nel 2015 durante la consegna di una laurea honoris causa è diventata, suo malgrado, l'ultimo folgorante strale mediatico della vita del semiologo e filosofo che oggi avrebbe compiuto 87 anni.

    Da quasi quattro anni, legioni di imbecilli commentano su Internet la frase di Umberto Eco sulle legioni di imbecilli che commentano su Internet. Non riduciamo un genio a un ingenuo: il nostro grande rimpianto semiologo e filosofo (nato in questo 5 gennaio del 1932) sapeva benissimo che la sua sarcastica affermazione avrebbe auto-alimentato e dimostrato la sua stessa verità. Quel che non poteva sapere, semmai, è che quell'aforisma sarebbe stato l'ultimo folgorante strale mediatico della sua vita: lo perdemmo otto mesi dopo che lo ebbe pronunciato, a Torino, il 10 giugno 2015, chiacchierando coi giornalisti dopo aver ricevuto l'ennesima laurea honoris causa.

    Dissero: è una boutade, gli è scappata. Pochi si accorsero che Eco aveva usato praticamente le stesse parole tre mesi prima in una intervista a El Mundo ("todos los que habitan el planeta, incluyendo los locos y los idiotas, tienen derecho a la palabra pública..."). Dunque era un'affermazione beffarda ma meditata. Ancora meno si sforzarono di andare oltre la provocazione perfetta di quella frase, ridotta a un anatema anti-neomediatico. Be', fare di Eco un mediologo nostalgico, un declinista apocalittico e tecnofobo schifato dal Web, sarebbe davvero paradossale.

    Tra le legioni di imbecilli che s'accaniscono sull'aforisma di Eco ci sono anche i nuovi teorici del ritorno alla democrazia elitaria; quelli che ad ogni fake news virale, ad ogni commento decerebrato, gridano "anche questi imbecilli poi vanno a votare!", quelli che quando gli elettori li contraddicono, vorrebbero sciogliere l'elettorato. Quelli che, senza ammetterlo, sono disgustati dalla libertà di accesso allo spazio pubblico, finora sorvegliato da rigide regole d'ingresso e da severi guardiani, che ora il Web offre a categorie sempre escluse: gli adolescenti, le donne, le minoranze etniche, politiche. Fare di Eco un pentito della democrazia, un predicatore dell'abolizione del suffragio universale, è un'altra bella imbecillità da Web. Il diritto di accesso di tutti, imbecilli compresi, allo spazio pubblico della democrazia non lo ha stabilito il Web, ma la Costituzione. La domanda è cosa fare di fronte all'esistenza degli imbecilli.

    Che cosa disse Eco davvero quel giorno? Che il Web non ha inventato gli imbecilli, ma ha dato loro, semplicemente, lo stesso pubblico che hanno i premi Nobel. E non l'ha fatto per caso. Perché da sempre i media lusingano l'uomo della strada, per manipolarlo meglio. Fu Eco a svelare come la Tv promosse il trionfo dello "scemo del villaggio", quando disse allo spettatore: tranquillo, se Mike Bongiorno può condurre un quiz, tu sei un dio. Poi andò oltre, e con i programmi trash disse: se il mondo è quello che ti facciamo vedere, allora tu sei migliore. I media non creano, ma coltivano e promuovono e gratificano l'imbecillità: perché fa vendere e fa votare. Il Web gratifica gli imbecilli, che "prima parlavano solo al bar dopo due o tre bicchieri di rosso e quindi non danneggiavano la società". Non la danneggiavano perché, prima, l'accesso ai media era sorvegliato da doganieri potenti: giornalisti, editori.

    Bene, l'era delle dogane è finita, inizia quella della battaglia in campo aperto. Ed Eco lo aveva intravisto da tempo. Quasi quarant'anni prima, sintonizzandosi su Radio Alice (Bifo gliene ha dato atto molti anni dopo), aveva colto come una novità dirompente la stagione delle radio libere che aprivano il microfono agli ascoltatori, in diretta e senza filtro, precoce media interattivo e disintermediato. Il Web fa la stessa cosa, e non è detto che sia solo un male. "Il fenomeno twitter permette alla gente di essere in contatto con gli altri, benché abbia una natura leggermente onanistica ed escluda la gente da tanti contatti faccia a faccia crea però un fenomeno anche positivo". Il libero accesso dal basso a un medium universale (quel giorno Eco disse anche questo) fa paura ai dittatori, i social hanno messo in difficoltà i dittatori arabi, Erdogan e i cinesi, e probabilmente, "se fosse già esistita la Rete, Hitler avrebbe fatto fatica a tenere nascosta l'esistenza di Auschwitz".

    Come ogni spazio pubblico, il Web è uno spazio conflittuale. Chi vince, tutte le teste si porta via. Gli imbecilli prendevano la parola anche prima, nei bar, nei capannelli di piazza, nelle code alla Ausl. Il Web ha soltanto esteso i decibel delle loro stentoree affermazioni. Semplicemente, al bar o in piazza (anche questo Eco disse quel giorno) spesso l'imbecille "veniva messo a tacere dagli astanti, ma tas ti stùpid...". Bene, dove sono oggi gli astanti intelligenti, nel bar planetario del Web? Perché tacciono? La scuola (anche questo disse Eco quel giorno) dovrebbe insegnare a filtrare le informazioni bislacche di Internet. I giornali (disse anche questo Eco quel giorno) dovrebbero verificarle e smascherarle quotidianamente. La Rete stessa dovrebbe fabbricarsi gli anticorpi, e di fatto lo fa, perché per ogni bufala ormai c'è uno smascheratore di bufale.
    Ma non solo. L'imbecillità social ha un sistema di difesa intrinseco (disse anche questo Eco quel giorno). "Oltre un certo limite si crea una sindrome di scetticismo, la gente non crederà più a quello che dice Twitter. All’inizio grande entusiasmo, poi cominceranno a dire: dove l'hai letto? L'ha detto Twitter? Quindi, tutte balle". Non accadrà da sé, ovviamente. Ci vuole la tenacia degli astanti intelligenti. La resistenza della ragione. Disse ance questo Eco quel giorno: "La difesa istintiva del pubblico: può avvenire su Internet? Dipende solo dalla capacità critica di chi ci naviga". Lo scemo del villaggio non trionfa mai per forza propria, ma solo per debolezza del sensato del villaggio.

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  • Rosa Fioravante – Sapere e potere, tratto da: Le conseguenze del futuro Sguardi, dati e testimonianze per interpretare il cambiamento, Scenari08 “Conoscenza”, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli 2018, pp. 38-45

    Note sul divorzio fra alto e basso

    Il problema della classe dirigente esiste da quando esiste la Politica. Esso si è fatto più pressante con l’estensione del suffragio universale e con l’ondata democratica che ha portato le masse a pieno titolo all’interno dell’agone pubblico. Infatti, all’aumentare della quantità di persone titolari di elettorato passivo e attivo, si sono generate numerose discussioni sulla qualità dell’esercizio di queste funzioni, in particolar modo in un contesto di democrazia rappresentativa. Mentre qui vi sono alcune riflessioni sulla qualità del dibattito pubblico e sulle principali problematiche connesse alla formazione di una cittadinanza critica e vigile nei confronti del Governo e dei poteri pubblici, cioè su come si articoli la democrazia nel “basso”, di seguito si riportano alcune riflessioni intorno alla formazione del personale politico e di coloro che al Governo e alle cariche hanno accesso, cioè inerenti a come si formi il cosiddetto “alto”.

    La dinamica di allontanamento e contrapposizione fra “alto” e “basso” è stata oggetto di numerose riflessioni intorno ai fenomeni populisti contemporanei. L’utilizzo di questa narrazione si impernia su alcuni nessi di matrice socio-politica: la crisi economica, che ha evidenziato con grande chiarezza lo iato creatosi dopo la fine dei cosiddetti “trenta gloriosi” fra potere economico nelle mani di pochi e potere politico anch’esso fattosi sempre più oligarchico e allo stesso tempo servile nei confronti del primo; l’incapacità dei partiti tradizionali e in particolar modo delle forze socialdemocratiche di far fronte all’emergere del “momento populista” non in modo episodico nel sistema democratico ma come sua forma quasi privilegiata in tutto Occidente; la crescente difficoltà, soprattutto per le giovani generazioni, di orientarsi nello scenario politico e capire come agire in modo efficacie per accedere ai processi decisionali. Questi ed altri sono fattori che impongono un’indagine attenta su quali anelli di connessione fra “popolo” e classe dirigente siano venuti a mancare, come siano mutati e quali forme di nuova intermediazione siano pensabili nel ventunesimo secolo. Da ultimo, le continue polemiche, all’ordine del giorno in Italia ma non

    solo, sulla formazione di classi dirigenti a vario titolo ritenute “incompetenti” o “distaccate” dall’elettorato, ricordano l’importanza di tornare a concepire meccanismi che non lascino invariata la dicotomia secondo la quale da una parte ci sarebbero dei semplici cittadini entrati nelle istituzioni senza qualifica e dunque “popolari ma inadeguati” e dall’altra delle élite super-formate ma allo stesso tempo lontane dalla “gente comune”.

    In questo senso, l’esempio dei partiti di massa del Novecento, anche e in alcuni casi soprattutto nel contesto italiano, racconta di una pluralità di modalità di formazione di una classe dirigente che sia allo stesso tempo ancorata al territorio e/o alla condizione sociale di provenienza e adeguata al ruolo ricoperto nelle istituzioni, falsificando proprio quella visione dicotomica che rimanda anche alla divisione “popolo vs. élite”, relativizzandola – anche qualora la si volesse ritenere fondata – ad un fenomeno di passaggio del tutto modificabile in altro senso. Alfredo Reichlin ne La mia Italia. La Repubblica, la sinistra, la bellezza della politica (2015), osserva: «Il Partito insegnava agli ultimi e ai braccianti non solo a protestare ma a porre il problema del Governo». In questi giorni, uno speciale del “Guardian” sul populismo, fa il punto su tutti i casi di “protesta al Governo”, cioè sull’aumento esponenziale negli ultimi anni di consensi e, conseguentemente, di esponenti eletti di formazioni cosiddette populiste: “Populism is as old as democracy itself, but the last 10 years have proven particularly fertile: populist leaders now govern countries with a combined population of almost two billion people, while populist parties are gaining ground in more than a dozen other democracies, many of them in Europe.”

    Rispetto ai tempi a cui faceva riferimento Reichlin nella citazione qui riportata, sono insomma rimasti, mutati secondo le modalità dei tempi, il polo della protesta e quello del Governo, ma ciò che manca del tutto sembra essere proprio “il Partito che insegnava” a tramutare la protesta in programma.

    A questo proposito, una riflessione generale particolarmente feconda è quella sul ruolo dei partiti, soggetti politici senza i quali il funzionamento della democrazia rappresentativa è pressoché impossibile – almeno secondo criteri di costituzionalità –, e più in particolare sul ruolo delle scuole di formazione promosse da questi soggetti. L’oggetto di studio è particolarmente interessante intanto perché queste si inserivano in un contesto partitico di massa, mediando fra l’esigenza di ancoraggio sociale e territoriale capillare del soggetto politico e la necessità, allo stesso tempo, di disporre di personale altamente qualificato per ricoprire posizioni di amministrazione locale o di rappresentanza nazionale ed europea. In secondo luogo, perché analizzando la funzione che esse ricoprivano e la loro articolazione è possibile, ex negativo, comprendere cosa manchi oggi e a quali esigenze sia possibile far fronte anche con espedienti differenti da quelli utilizzati in passato, ma che sortiscano il medesimo effetto di cerniera fra le spinte trasformatrici della società che si possono originare “dal basso” (sempre per usare questa comoda per quanto non accurata metafora) e la costituzione di un “alto”.

    Note sul divorzio fra formazione e selezione della classe dirigente

    La formazione e la selezione del ceto politico erano fra le priorità strategiche dei grandi partiti di massa novecenteschi. A titolo meramente esemplificativo, nella Relazione della direzione centrale per il congresso nazionale del 1959 della Democrazia Cristiana, si legge di quanto fosse necessario intensificare lo sforzo organizzativo al fine di porre in essere, stimolare, favorire — e non in vista di stringenti impellenze, ma per provocare la sempre maggiore immediatezza di azione nella continuità e far scaturire la vivezza di partecipazione nel rapporto fra il cittadino ed il Partito — l’intercambio delle istanze e delle comunicazioni fra il popolo e le rappresentanze politiche ed amministrative.

    Più nello specifico, separando formazione e selezione della classe dirigente, la prima in una prima fase e la seconda in una successiva.

    Attività di formazione

    Il programma di attività di questo primo periodo era stato enunciato in quattro fasi. La prima: Tesseramento e Festa del socio; ed anche la seconda: Potenziamento delle strutture e formazione dei dirigenti, si può dire che ebbero il loro svolgimento. Tanto che vennero pure pubblicati e fatti recapitare ai destinatari, in collaborazione con l’Ufficio Formazione, i due opuscoli: «Linea di orientamento della D.C. nel primo decennio democratico» e «Obiettivi organizzativi per il corrente anno». Il programma prevedeva una terza fase: Formazione degli iscritti e contatto con l’elettorato (dal maggio al luglio, e che comprendeva la diffusione del «Manuale del democratico cristiano»); ed una quarta: Preparazione elettorale (dal settembre in poi). Ma queste due ultime, per le note vicende politiche di quella primavera, rimasero — così come erano state congegnate — allo stato della elaborazione.

    Preparazione a livello sezionale

    Incrementare l’attrezzatura delle sedi, rassodare l’efficienza organizzativa, rinnovare modi di vita e metodo di lavoro, far funzionare la rete capillare, penetrare nel vivo delle categorie sociali azionando una propaganda specializzata e dinamica furono i capisaldi che la Segreteria Organizzativa tenne sempre di mira nel praticare contemporaneamente la più idonea preparazione dei dirigenti sezionali, pari ai compiti che essi venivano ad assumersi. Il problema di tale preparazione venne affrontata dalla Direzione Centrale e per essa dalla Segreteria Organizzativa e dall’Ufficio Formazione con un impegno, una misura e con risultati mai fino ad allora dalla D.C. raggiunti. Vennero programmati ed attuati:

    • 92 Convegni Provinciali di Segretari di Sezione; di cui 86 furono presieduti da un mem- bro della Direzione Centrale;
    • 73 Corsi, di 3 e 4 giorni, a cui parteciparono 3.530 Dirigenti Organizzativi Sezionali; – 69 corsi, della stessa durata, a cui presero parte 3.362 Dirigenti Elettorali Sezionali;
    • 57 corsi, di giorni 4 ciascuno, che vennero frequentati da 5531 Dirigenti Sezionali Organizzativi ed Elettorali.

    Sempre a titolo meramente esemplificativo, nel volume di Tito Barbini Quell’idea che ci era sembrata così bella (2016) si trova un lungo passaggio (che riprende diverse osservazioni di Francesco Cundari) su ciò che Frattocchie ha rappresentano per il PCI, innanzitutto perché: «Erano altri tempi: e quella Scuola era, prima di tutto, identità e appartenenza», ma anche per motivazioni più pratiche legate proprio alla necessità di continua connessione fra i dirigenti attuali e quelli che erano in corso di formazione: «Fino agli anni Settanta li potevi trovare tutti a Frattocchie, i dirigenti del PCI. Potevi incontrare Luigi Longo [...] è rimasta famosa una sua domanda “Compagni, vi piace Orietta Berti?” La platea rivoluzionaria, riunita nell’aula magna, ammutolì di colpo. “Perché, sapete, a me piace”, e il compagno Luigi Longo cominciò a battere il ritmo e a cantare “Finché la barca va, lasciala andare...”. C’era la rivoluzione da fare, i democristiani da battere, la reazione fascista in agguato, per tacere del resto [...] Brutto segno: non Longo che canticchiava, ma i virgulti della FGCI muti lì davanti. Era una lezione di politica, quella, non karaoke con decenni di anticipo: “Se sai tutto di Ho Chi Min e niente di cosa frulla nella testa del vicino di pianerottolo, che rivoluzione vuoi fare?”. Un purissimo distillato dell’insegnamento togliattiano. “Mai allontanarsi dalle masse”, ripeteva sempre il Migliore, che del resto era un noto ammiratore di Rita Pavone. Questa era la vera funzione delle Frattocchie: trasmettere memoria e sapere da una generazione all’altra, facendoti sentire in questo modo davvero dentro la grande Storia, parte di un movimento mondiale. [...]»

    Per tutti i partiti di massa poi, non meno centrale nella costruzione del corpo collettivo, al di là della classe dirigente, era la formazione dei quadri intermedi, vera e propria infrastruttura portante dell’organizzazione e della mobilitazione, ma anche della risoluzione dei conflitti: erano figure con un compito molto delicato come quello di mediare fra la linea nazionale e le esigenze locali. Infatti, se l’incompetenza del personale politico che arriva a ricoprire cariche di rilievo nazionale, di leadership e di carattere mediatico è certamente più manifesta e quindi più discussa dalla pubblica opinione, spesso si trascura di rammentare il ruolo indispensabile dei quadri intermedi nell’intervenire nell’organizzazione interna e far funzionare proprio quella macchina quotidiana che consente alle leadership nazionali di operare sulla base di un ampio consenso continuamente rinnovato e non in presenza di un consenso volatile.

    In questo senso, la scuola di partito e la tensione perenne alla missione pedagogica della cittadinanza dei partiti di massa si configuravano come antitesi a quel processo di disancoraggio delle realtà politiche dalle realtà sociali lungamente richiamato da Marco Almagisti nel suo La democrazia possibile (2017).

    Note sul divorzio fra sapere e potere

    Se si immagina uno spettro ideale i due opposti della mediazione e della disintermediazione, la scuola di partito si pone all’estremo opposto rispetto alla disintermediazione perché unisce nel medesimo sforzo tanto il polo della condivisione del sapere – quindi dell’approfondimento tematico e ragionato – quanto quello del soggetto collettivo stabilmente organizzato e gerarchico. La scuola di partito, almeno nella sua fondamentale aspirazione, evitava due derive che oggi inficiano largamente la qualità della democrazia: quella della tecnocrazia che sembra rinforzare una divisione netta fra “élites” che hanno accesso al sapere e chi non lo ha, e quella dell’antipolitica che contrappone coloro che sarebbero “casta politica” e coloro che sono esclusi dai processi decisionali, configurandosi come due facce della stessa mancata connessione fra “alto” e “basso”.

    La tendenza alla tecnicizzazione della politica, connessa spesso all’idea che solo gli specialisti di un certo settore ne possano discutere e possano accedere alla sua gestione inerente, è connessa non solo con una generale tendenza all’iper-specialismo, tipica delle società contemporanee e frammentate, ma anche alla sempre più marcata divaricazione fra luoghi accademici e di produzione di pensiero e luoghi di decisione politica. Un “divorzio” consumatosi fra l’iper-specialismo dei primi e la mancanza di formazione accurata di coloro che abitano i secondi. Così si va approfondendo una situazione paradossale nella quale aumentano le conoscenze e il volume di dati e di indagini disponibili ma la stessa disponibilità non si traduce in diffusione fra coloro che vengono eletti.

    Di più, oltre al tema delle conoscenze, la scuola di partito aiutava anche a far fronte ad un problema inerente le competenze del politico in senso ampio. Infatti, tutto il discorso della cosiddetta antipolitica si è costruito sull’idea che non vi fossero competenze specifiche richieste per ricoprire incarichi pubblici e d’altro canto che coloro che vi sono stati eletti non siano allo stesso tempo in grado di farlo con requisiti pre-politici quali la moralità, l’onestà ecc. Nell’aumento della distanza fra rappresentati e rappresentanti è completamente scomparsa la concezione della politica come occupazione che richieda alcune competenze specifiche o acquisibili con l’esperienza sul campo. Benché si trattasse di una “scuola”, il contesto partitico aiutava a concepire le competenze necessarie alla buona rappresentanza politica come un prodotto delle in- terazioni sociali, dell’approfondimento condotto in una dimensione comune, in termini di strumenti utili ad interpretare e (eventualmente) modificare la realtà circostante (dai sistemi internazionali alle vicende amministrative locali più quotidiane) e non in termi- ni di “titoli” acquisiti formalmente. A questo proposito sembra opportuno richiamare la valutazione di Sebastiano Vassalli ne Questo terribile e intricato mondo (2008):

    “Per trasformare in meglio quel tanto che si può c’è una via sola, purtroppo, e non è quel- la di far crescere il numero dei programmi di bella prospettiva, delle visioni complesse del mondo. È invece, quella di far crescere il numero degli uomini di buona volontà e di buon senso. Il resto o non si può, o è un finto fare e un vano chiacchierare”

    In politica, anche la “buona volontà” è frutto di un ingaggio collettivo, altra cosa dalla spontanea adesione individuale a questo o quel valore morale.

    D’altro canto, il tema della formazione del personale politico è stato del tutto accanto- nato nel dibattito pubblico sostituito dall’idea che la politica non debba avere una sua specifica “area di competenza” ma essere appannaggio della cittadinanza in quanto tale, un’idea che elimina a monte l’interrogativo su quali siano le possibili modalità di formazione della classe dirigente. Infatti, la patologica distanza fra eletti e costituen- cy, fra classe dirigente e cittadinanza, non ha trovato come risposta egemonica una riflessione su come ricucire questo iato, ma proprio la concezione che la cittadinanza in quanto tale potesse essere trasposta tout court nelle istituzioni senza alcuna me- diazione o formazione specifica. Non è un caso che Colin Hay nel suo Why We Hate Politics (2007) osservi: «Indeed, as we shall see, a crucial factor in the development of contemporary political disaffection has been the growing political influence of those for whom politics is, at best, a necessary evil».

    Parallelamente, il processo di privatizzazione della politica, delle sue fonti di finanziamento e delle modalità di gestione degli stessi soggetti politici (personalismo, ecc.) ha contribuito a non favorire l’apertura di quella discussione, facilitando invece lo spostamento dei luoghi stessi della formazione, quasi su modello aziendale, “esternalizzandoli”, “appaltandoli” (come successo anche per quanto concerne tutto quello che era l’apparato comunicativo e di “agitazione e propaganda”). Un volume di ricerca edito nel 2015 ha indagato cosa si stia sostituendo alle realtà delle scuole di partito; fin dal titolo il richiamo è evocativo: «I “nonluoghi” della formazione della classe dirigente e della decisione politica». Al suo interno di particolare interesse è la riflessione di Francesco Marchianò intorno alla selezione delle élites nella post-democrazia. Ciò che si rileva è che i nuovi “nonluoghi” della formazione, sostituiti a quelli di partito, si collocano in un circuito esterno a quello del processo decisionale semi-istituzionalizzato, tra il proliferare di think thank orientati al policy making, finanziati da risorse private, e una costellazione di realtà di formazione collegate a singole personalità influenti e non dotate di valenza ideologica collettiva per tutto il soggetto politico.

    Da ultimo, per nulla tuttavia meno rilevante, è infatti opportuno richiamare la funzione delle scuole di partito come luoghi della trasmissione ideologica. Una funzione a lungo discussa, spesso anche in rapporto ad un dibattito sulle ideologie che le ha considerate in termini eminentemente dispregiativi riferendosi al carattere totalizzante, di pensiero “precostituito” e ultimativo. Come ricordano i maggiori studiosi contemporanei delle ideologie, da Michael Freeden a Manfred B. Steger, questa accezione dispregiativa è solo una delle possibili adottabili per definire le ideologie e non certamente quella che meglio aiuta a comprendere i grandi processi di mutamento contemporaneo, i quali hanno numerosi risvolti e caratteri ideologici che, se non indagati correttamente, finiscono per agire indipendentemente dal volere e dalla coscienza critica di chi questi processi li subisce.

    In questo senso, ci si può riferire a questa funzione come Alfio Mastropaolo ha osservato a proposito del contesto partitico novecentesco ne Il Ceto Politico. Teorie e Pratiche (1996):

    «Se la contrapposizione ideologica era la ragione di tutti i mali, come mai, è il caso di domandarsi, il sistema paradossalmente ha tenuto finché è durata, mentre si è verificato il collasso allorché la sua presa è venuta meno? [L’ideologia quindi] non divideva ma univa: o meglio, univa nello stesso momento in cui divideva»

    A dispetto dell’uso dispregiativo del termine e del lungo dibattito sulla loro presunta fine, un mondo nel quale non si insegnano e non si imparano le ideologie non è un mondo nel quale le ideologie non ci siano, ma nel quale non si sanno riconoscere, discutere, modificare. Così, la scomparsa delle scuole di partito non ha lasciato il passo ad una contemporaneità più libera o meno dogmatica, ma ad una moltitudine di individui, privati di un luogo di riflessione e socializzazione che, con tutti i limiti di parzialità, burocratismo e verticismo che pure presentava, contribuiva a mantenere vitale il tessuto delle moderne democrazie rappresentative.

  • Media, boom di giornali online e social. Censis: è la fine dei giornali cartacei, Affari Italiani.it, 11/10/2018

    Cresce la diffusione dei media digitali e il numero degli utenti social, mentre la tv tradizionale, pur risentendo dell’attacco dei servizi streaming, resta il media più amato in Italia. Sono questi alcuni dei principali trend di consumo fotografati dal 15esimo Rapporto sulla comunicazione del Censis, che dal 2001 monitora i consumi dei media analizzando i cambiamenti nella dieta mediatica degli italiano e la loro ricaduta sulla vita del Paese. Intitolato ‘i media digitali e la fine dello star system’, l’analisi è stata presentata questa mattina a Roma dal direttore generale del Censis Massimiliano Valerii in un dibattito a cui hanno partecipato Gina Nieri di Mediaset, Gian Paolo Tagliavia della Rai, Massimo Porfiri di Tv2000, Massimo Angelini di Wind Tre, Fabrizio Paschina di Intesa Sanpaolo, Francesco Rutelli di Anica e il presidente del Censis Giuseppe De Rita. Dai dati emerge che l’uso di internet e degli smartphone interessa rispettivamente il 78,4% e il 73,8% degli italiani, e nel 2018 il primo ha registrato una crescita del 3,2%, il secondo dell 4,2%. In crescita anche gli utenti dei social network, che salgono al 72,5% della popolazione, con più della metà degli italiani che sceglie Facebook (56%) e YouTube (51,8%). Tra gli altri social un notevole balzo in avanti lo registra Instagram, che raggiunge il 26,7% di utenti con 55,2% di giovani; al contrario declina Twitter, che scende al 12,3%.

    La televisione tradizionale però resta ancora oggi il media più amato. L’89,9% di italiani vedono la tv digitale terrestre e il 41,2% la tv satellitare, ma c’è un cambiamento: perdono entrambe il 2,3% di spettatori. Quelle che crescono invece in maniera molto significativa, specie tra i giovani, sono le televisioni che si prestano al palinsesto fai da te e cioè le web-tv e le smart-tv che raccolgono il 30% dell’utenza, e la mobile tv che conta 25,9% di spettatori. Altro segnale forte delle trasformazioni in atto è la crescita degli abbonati alle piattaforme on demand di video streaming – da Netflix ad Infinity a Tim Vision – che in un anno sono passati dall’11% al 18% con punte del 29% tra i giovani under 30.

    La radio invece si presenta come un mezzo all’avanguardia nell’ibridazione tra i media. Se i radioascoltatori rappresentano il 79,3% degli italiani a testimoniare la popolarità del mezzo, la radio tradizionale perde il 2,9% dell’utenza cresce invece l’ ascolto delle trasmissioni radiofoniche via pc (il 17% degli italiani) o via mobile (il 21% e +1,6% sul 2017). Lo sviluppo impetuoso dei media digitali si accompagna ad un discorso diametralmente opposto che riguarda la carta stampata e l’ampliamento del press divide: il 56% degli italiani non contempla abitualmente nella sua dieta mediatica i mezzi cartacei, libri, giornali, riviste, periodici di carta. Crisi anche del libro e dei lettori: solo il 42% degli italiani ha letto almeno un libro nel corso dell’anno e gli e-book si fermano all’8,5%. Una tendenza che paradossalmente si accompagna ad un aumento dei livelli di istruzione per una maggiore incidenza di laureati. Quest’ultimo Rapporto  appare particolarmente significativo perché mostra in piena evidenza la rivoluzione indotta in tutta la filiera dei media e non solo dai processi di disintermediazione digitale e della digital life tanto che si arriva a parlare di ‘mutazione antropologica’.

    “Questo Rapporto segna un salto d’epoca – commenta Massimiliano Valerii – non soltanto perché i media digitali continuano a battere nuovi record: otto italiani su dieci utilizzano internet, sette su dieci hanno lo smartphone connesso in rete ed altrettanti utilizzano i social network. L’effetto finale di tutto questo grande processo di disintermediazione digitale è la fine dello star system per come l’avevamo conosciuto”. Nell’era biomediatica, si legge nel documento, la metà degli italiani ritiene che chiunque può diventare un divo, un terzo considera che per essere una celebrità bisogna essere attivi sui social network un quarto dice che i divi del passato non esistono più. Solo uno su dieci si riferisce ai divi come dei miti a cui ispirarsi per la propria vita.

    “E’ entrato in crisi quel congegno sociale di proiezione e imitazione, che il divismo invece aveva molto segnato nella seconda metà del novecento, in quell’epoca in cui l’Italia cresceva, aveva un’agenda sociale molto compatta e condivisa e in cui il divismo giocava un ruolo anche dal punto di vista sociale”, ha aggiunto Valerii a proposito delle implicazioni figlie della smitizzazione del divismo.
    Oggi “siamo tutti divi, il che vuol dire che in realtà nessuno lo è più e questo blocca quel meccanismo sociale di proiezione e di tipo aspirazionale”. “Non lo diciamo con nostalgia perché non bisogna mai rispetto ai cambiamenti reclinare la testa all’indietro , ma questo è un aspetto importante in termine di impatto dei cambiamenti delle diete mediatiche degli italiani sul corpo sociale”. Nella fotografia del Censis si evidenzia anche la forte cesura generazionale nei consumi mediatici. Tra di under 30 la quota di utenti di Internet supera il 90% mentre si ferma al 42,5% tra gli over 65 Come pure l’86% dei giovanissimi usa lo smartphone contro il 35% degli anziani, E se più della metà dei giovani si informa sul web lo fa appena un quinto della tribù dei capelli grigi.

    E l’informazione? Se i telegiornali sono ancora la principale fonte di notizie per gli italiani il Rapporto fotografa il crollo dei lettori dei quotidiani. Se nel 2007 il 67% degli italiani non rinunciava alla lettura del quotidiano la percentuale è scesa al 37,4% nel 2018 ( anno in cui peraltro si registra un +1,6% di utenza). Un calo che non è stato compensato dalle testate on line dei quotidiani seguiti dal 26,3% degli italiani mentre crescono molto gli aggregatori di notizie e i portali generici di informazione (46%). Ma anche da questo punto di vista il 2018 segna una novità: l’informazione on line attraverso i social e soprattutto via Facebook – cresciuta negli ultimi anni al punto tale che il social di Zuckerberg è diventato il secondo mezzo di informazione dopo i telegiornali – registra invece una battuta d’arresto. Ha pesato probabilmente il dibattito sulle fakenews e lo scandalo di Cambridge Analitica che devono aver fatto sì, si legge nel Rapporto, che in generale l’informazione on line, quella non professionale e autorevole dei giornalisti, abbia perso di credibilità. C’è quindi un ritorno alle forme di informazioni autorevoli e professionali ed è la prima volta che si registra questa svolta.

    Eppure l’uso politico dei social network viene visto con favore da quasi la metà degli italiani (47,1%) per il fatto che cittadini e politici possono parlarsi bypassando i tradizionali mediatori. Il 29,2% degli italiani è invece contrario perché si favorirebbe il populismo mentre per il 23,7% si fa solo gossip e le notizie importanti si trovano solo sui giornali e in tv. “C’è una crescita di consapevolezza degli italiani – commenta il direttore generale Censis – che non rinnegano i meccanismi di disintermediazione digitale e ne è una conferma che la metà della italiani giudica preziosa o comunque utile l’uso dei social in politica. Allo stesso tempo è però cresciuta la consapevolezza nei termini di affidabilità dei media che vengono consultati per informarsi per cui i giornali radio, i telegiornali, le all news, la carta stampata hanno più credibilità nell’opinione degli italiani rispetto alle altre fonti che si possono trovare sul web”.

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  • Renato Parascandolo – Il diritto alla conoscenza: un decalogo per i lettori, Articolo 21, 15/09/2018

    A che servirebbe un’informazione, libera, corretta e veritiera se i lettori non fossero in grado di distinguerla da quella falsa e ingannevole? Se il lettore è uno svogliato sfogliatore di titoli di giornale; se l’utente della rete è un saltimbanco che zompetta e caracolla nello sciame digitale e il telespettatore se ne sta comodamente seduto in attesa dell’ultima notizia di cui scandalizzarsi, la libertà d’informazione è una vuota formalità. Come esiste un decalogo per i giornalisti così dovrebbe esistere un decalogo per i lettori, un manuale di formazione permanente che insegni loro a riconoscere l’attendibilità di fonti e notizie, a interpretarle, approfondirle, contestualizzarle; a distinguere quelle vere dalle false, a ricercarne gli antefatti e a individuare, al di là delle apparenze, quali siano le parti in gioco e la posta in gioco negli accadimenti. Solo alla fine di questo percorso, i lettori saranno in grado di esprimere un giudizio consapevole e magari chiedersi in che modo possano rendersi utili perché i fatti di cui hanno avuto notizia prendano una piega piuttosto che un’altra.

    Si può leggere il giornale, navigare in rete o guardare la televisione “per essere aggiornati”, ma per conoscere la realtà dei fatti bisogna attivarsi perché i fatti non parlano da soli. Le notizie, per quanto obiettive e complete, sono, per loro natura, legate alla contingenza, all’attualità. Inoltre, prese in sé, estrapolate dal loro contesto, le notizie si prestano a diversi significati, come una parola al di fuori di una frase. L’immediatezza delle notizie, non mediata dalla riflessione di lettori accorti, genera un rovinoso vaso di Pandora da cui si liberano miriadi di opinioni infondate, approssimative e contrastanti: cibo a buon mercato di cui si alimentano i talk show e i social network per accrescere i proventi della pubblicità.

    Se assistiamo a una progressiva frantumazione del discorso pubblico, la responsabilità è da addebitare proprio a quella parte, non marginale, di lettori “ingenui” vittime di una bulimia che li sospende in un eterno presente scandito dal sopraggiungere dell’ultima notizia che cancella le precedenti: un consumo compulsivo, utile soltanto a riempire i vuoti dell’esistenza.

    Il disorientamento dei lettori è inoltre accentuato da un luogo comune, molto diffuso tra i giornalisti, secondo cui “l’obiettività non esiste” e pertanto sarebbe impossibile essere imparziali nella descrizione della realtà che, pertanto, non potremmo mai conoscere la verità dei fatti: un pregiudizio che spalanca le porte al celebre aforisma nichilista di Nietzsche “non esistono fatti ma solo interpretazioni”.

    Quanto più l’informazione cresce a dismisura, tanto più decresce la formazione dei lettori, la loro capacità d’interpretarla. Da qui la crescita esponenziale di un surrogato dell’opinione pubblica: l’opinione di massa, un immane agglomerato di persone esposte alla suggestione, al pregiudizio al rancore e all’influencer di turno; una massa di manovra letteralmente “ignorante” che sale in cattedra sbandierando i suoi like. (L’opinione di massa non è un’invenzione di Facebook: nasce con la radio e la televisione e ha svolto un ruolo cruciale in tutte le tragedie politiche che il XX secolo. I social si sono, tuttavia, rivelati un ottimo terreno di coltura per la ripresa della sua crescita).  

    Il diritto all’informazione è solo il presupposto della conoscenza. Senza un’opinione pubblica dotata degli strumenti che le consentano di comprendere la realtà e le sue contraddizioni e di schivare fake news e post-verità, la libertà d’informazione è esposta a una crescente censura additiva che occulta i fatti che contano facendoli sparire nel polverone delle notizie rubaclic e degli shitstorm (tempeste di letame).

    Né bisogna trascurare il fatto che, nonostante la scolarizzazione di massa e l’indiscutibile opera di divulgazione e informazione svolta dai media, il cittadino medio di un paese occidentale è, relativamente, molto più ignorante del suo omologo dei primi anni del XX secolo. Quest’ultimo era in grado di padroneggiare gli oggetti del mondo circostante poiché ne conosceva grosso modo il funzionamento, mentre l’uomo comune di oggi è inerme di fronte al motore della sua auto, alla casa domotica e agli algoritmi di cui si serve ogni giorno (magari senza neanche accorgersene). Ma ancora più inquietante è la distanza abissale che separa l’opinione pubblica attuale dalle ricerche e dalle conoscenze acquisite dai laboratori scientifici delle grandi corporation oppure dagli arcana imperii della cui esistenza si ha la percezione solo grazie a “incresciose” fughe di notizie temerarie come le rivelazioni di Snowden. La totale assenza di glasnost dei centri del potere è un pericolo per la democrazia.

    Quando si parla delle crescenti diseguaglianze tra ricchi e poveri, si trascura di mettere sul piatto della bilancia il pericoloso divario di conoscenze tra chi detiene il potere e chi non ce l’ha, nonostante queste due tendenze vadano a braccetto e si alimentino a vicenda. In una democrazia compiuta, il diritto alla conoscenza è importante quanto il diritto alla salute e il diritto all’istruzione; per esercitarlo, bisogna disporre di un metodo e di strumenti cognitivi perché, come ricordava Einaudi nelle sue Prediche inutili, “non conosce chi cerca bensì colui che sa cercare”. Insegnare a conoscere e ad accrescere la capacità di giudizio e di critica nei lettori è, per i giornalisti, un dovere altrettanto importante che fare buona informazione, ricercare e raccontare la verità.

    Da queste riflessioni ha preso spunto il concorso sulla libertà di informazione Rileggiamo l’Articolo 21 della Costituzione, promosso da Articolo 21 e dal Miur: un esperimento di media education che ha visto la partecipazione di quindicimila studenti di oltre ottanta province e l’impegno di autorevoli costituzionalisti, filosofi e giornalisti che sono andati nelle scuole per dialogare con gli studenti non solo del diritto di informare ma anche del dovere di informarsi, di conoscere.

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  • Giulia Rocco – Quasi un italiano su tre è un analfabeta funzionale. Una (triste) classifica, AGI, 09/09/2017

    L'Onu ha festeggiato la giornata dell'alfabetizzazione, quest'anno dedicata a quella 'digitale'. Ecco come siamo messi in Europa.

    “L’alfabetizzazione non consiste solo nel saper leggere, scrivere e fare di conto, ma è un contributo all’emancipazione di ogni essere umano e al suo completo sviluppo. Fornisce gli strumenti per acquisire la capacità critica nei confronti della società in cui viviamo, stimola l’iniziativa per sviluppare progetti che possano agire sul mondo e trasformarlo, e fornisce le capacità per vivere le relazioni umane. L’alfabetizzazione non è fine a se stessa, è un diritto fondamentale dell’uomo”. Lo dice la Dichiarazione di Persepoli, adottata dall’UNESCO nel 1975 e punto di riferimento per la Giornata Internazionale dell’alfabetizzazione che viene celebrata ogni anno l’8 settembre dal 1966. Intesa come strumento che contribuisce a combattere la povertà, la mortalità infantile e la disuguaglianza di genere, l’alfabetizzazione rientra tra gli obiettivi del programma “Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile” sottoscritto nel 2015 dai 193 Paesi membri dell’ONU. Tema della giornata di quest’anno è stata “l’alfabetizzazione in un mondo digitale”: le tecnologie digitali permeano molte sfere della nostra vita e, se da un lato hanno le potenzialità di aprire nuove opportunità, dall’altro possono escludere da queste prospettive tutti coloro che non sono alfabetizzati. “Nella società digitale odierna il concetto di alfabetizzazione sta cambiando”, spiega Irina Bokova, direttore Generale dell’UNESCO nel messaggio lanciato per l’occasione, “ma nello stesso tempo la tecnologia può migliorare lo sviluppo dell’alfabetizzazione”. In tutto il mondo ci sono ancora 750 milioni di adulti non alfabetizzati e 264 milioni di bambini che non hanno la possibilità di beneficiare dell’istruzione scolastica. Inoltre, all’interno della popolazione alfabetizzata molte persone giovani e adulte non possiedono le competenze necessarie per vivere a pieno nella società digitale e sul luogo di lavoro. “Diminuire questo divario di competenze è un imperativo in termini sia educativi sia di sviluppo”, afferma Irina Bokova.

    Milioni coloro che non sanno leggere e scrivere

    Gli ultimi dati raccolti dall’Istituto di Statistica UNESCO (UIS) parlano di un’alfabetizzazione dell’86% della popolazione adulta globale (dai 15 anni in poi) e di una una differenza del 7% tra i generi: l’83% della popolazione adulta femminile contro il 90% di quella maschile. Tra i giovani (15-24 anni) il tasso di alfabetizzazione è più alto (91%), e diminuisce il gap tra maschi e femmine, come si vede dal grafico. Dei 750 milioni di persone non alfabetizzate nel mondo il 63% è costituito da donne. I numeri scendono considerevolmente nella fascia dei giovani dove si assottiglia anche la differenza di genere. Nonostante i numeri siano ancora alti, il miglioramento nella fascia di età compresa tra i 15 e i 24 anni è considerevole: se 50 anni fa il 25% di questa fascia di popolazione non era alfabetizzata, al 2016 questa percentuale è scesa al 10%, che corrisponde a 102 milioni di giovani. Per raggiungere gli obiettivi del Programma per lo Sviluppo Sostenibile servono ulteriori sforzi al fine di garantire a tutti i giovani e a gran parte della popolazione adulta, sia maschile sia femminile, tutti gli strumenti per poter leggere, scrivere e fare di conto

    L’alfabetizzazione nel mondo

    Nell’Asia meridionale vive circa la metà della popolazione globale non alfabetizzata (49%). Questa percentuale scende al 27% in Africa subsahariana, al 10% in Sud-est asiatico, al 9% in Nord Africa e in Asia occidentale e intorno al 4% nei Caraibi e in America Latina. Meno del 2% del totale sono le persone analfabete in Asia centrale, Europa, Nord America e Oceania. Si trovano in Africa Sub-sahariana e in Asia meridionale i paesi con un tasso di alfabetizzazione inferiore al 50%. Il Niger, che è il paese con il tasso di alfabetizzazione più basso, è sceso dal 28,7% nel 2005 al 15,4% nel 2012, seguito dal Ciad, che è passato dal 26% al 22,3% tra il 2015 e il 2016, e dal Sud Sudan (26,8% nel 2008). La situazione è più incoraggiante per quanto riguarda i livelli di alfabetizzazione nei giovani (15-24 anni): il 91% contro l’86% della popolazione adulta, dato che riflette un incremento della scolarizzazione nelle nuove generazioni. Rimangono comunque bassi i livelli di alfabetizzazione in alcuni paesi dell’Africa subsahariana dove persistono problemi di accesso alle scuole, abbandono precoce e qualità dell’educazione.

    Questioni di genere

    A livello globale, la differenza di alfabetizzazione tra uomini e donne è del 7% negli adulti e del 3% nei giovani, come si vede nel primo grafico. La disparità è nulla o molto piccola in Asia centrale, Europa, Nord America, Sud-est asiatico, Caraibi e Latino America, ma è ancora molto evidente in Nord Africa, Asia occidentale, Asia meridionale e Africa subsahariana. In queste regioni del mondo la differenza arriva anche al 20%.  L’indice di parità di genere (GPI, Gender Parity Index), indicato nel grafico, è stato calcolato dividendo il tasso di alfabetizzazione femminile per quello maschile. Valori molto minori di 1 indicano una forte disparità di genere, mentre valori tra 0,97 e 1 indicano parità di genere in termini di alfabetizzazione.

    Qual è la situazione in Italia?

    Secondo i dati dell’UNESCO, in Italia, l’alfabetizzazione sfiora il 100%: nel 2011 il tasso di alfabetizzazione nella popolazione adulta corrispondeva al 98,8% e al 99,8% per i giovani tra i 15 e i 24 anni. La disparità di genere è nulla o quasi nulla nelle tre fasce di popolazione.  L’indice di parità di genere (GPI) è pari a 1 nei giovani, a 0,99 negli adulti e a 0,98 nella popolazione anziana (dai 65 anni in poi). Se si prendesse alla lettera la definizione di alfabetizzazione contenuta nella Dichiarazione di Persepoli (riportata all’inizio dell’articolo), l’alfabetizzazione non dovrebbe limitarsi alle capacità di leggere, scrivere e fare di conto, ma dovrebbe rappresentare un quadro più complesso con vari livelli di competenza. Per dare l’idea di questa complessità e per definire un profilo in base alle capacità di portare a termine con successo le attività della vita quotidiana, sono stati fissati 6 livelli: il livello inferiore a 1 e il livello 1 (low skilled) indicano competenze modestissime, il livello 3 è l’elemento minimo per un inserimento positivo nella società e nel lavoro, e i livelli 4 e 5 (high skilled) indicano una piena padronanza di competenze. Da un’indagine Ocse-Piaac pubblicata nel 2016 risulta che in Italia il 28% delle persone tra i 16 e i 65 anni appartiene ai primi due livelli: sono i cosiddetti analfabeti funzionali, ovvero adulti che sanno leggere e scrivere, ma che non sono in grado di usare queste capacità nella vita quotidiana e che spesso non comprendono i linguaggi delle nuove tecnologie. Gli analfabeti funzionali, per esempio, potrebbero non essere in grado di risalire a un’informazione di base contenuta in un sito web, come il numero di telefono nella sezione “Contattaci”. Con il 28% di analfabeti funzionali, l’Italia si colloca al penultimo posto in Europa, insieme alla Spagna, e al quartultimo nel mondo, rispetto ai 33 paesi analizzati.

    In Italia, l’analfabeta funzionale ha più di 55 anni anni, non è diplomato ed è disoccupato, oppure è molto giovane non studia né lavora, può avere genitori con un titolo di studio di secondaria inferiore, e può aver passato l’adolescenza in una famiglia con meno di 25 libri. Il profilo dei low skilled aumenta con l’aumentare dell’età, mentre quello degli high skilled è molto poco rappresentato in tutte le fasce di popolazione. Come si legge nel Rapporto nazionale sulle competenze degli adulti: “a parte i possibili effetti dell’invecchiamento, il legame tra competenze ed età è sicuramente influenzato da diversi fattori quali la carriera scolastica, la transizione scuola-lavoro, la carriera lavorativa oltreché lo stile di vita e le attività quotidiane”.

    “Capire meglio il tipo di alfabetizzazione richiesto in un mondo digitale, con lo scopo di costruire società più inclusive, eque e sostenibili, è il fulcro della riflessione odierna”, commenta il direttore Generale dell’UNESCO Irina Bokova, “ognuno dovrebbe essere in grado di sfruttare al meglio i benefici della nuova era digitale, in nome dei diritti umani, del dialogo e di uno sviluppo più sostenibile”.

    Leggi l'articolo originale.

  • Paolo Caserta, Carla Rossi – Analfabetismo funzionale: un’altra piaga italiana, Centro Studi Statitici e Sociali, 16/08/2017
  • Elisa Murgese – Analfabeti funzionali, il dramma italiano: chi sono e perché il nostro Paese è tra i peggiori, L'Espresso, 21/03/2017

    Sono capaci di leggere e scrivere, ma hanno difficoltà a comprendere testi semplici e sono privi di molte competenze utili nella vita quotidiana. Nessuna nazione in Europa, a parte la Turchia, ne conta così tanti. Tutti i numeri per capire la dimensione di un fenomeno spesso sottovalutato

    Hanno più di 55 anni, sono poco istruiti e svolgono professioni non qualificate. Oppure sono giovanissimi che stanno a casa dei genitori senza lavorare né studiare. O, ancora, provengono da famiglie dove sono presenti meno di 25 libri.

    Sono gli analfabeti funzionali, quegli italiani che non sono in grado di capire il libretto di istruzioni di un cellulare o che non sanno risalire a un numero di telefono contenuto in una pagina web se esso si trova in corrispondenza del link “Contattaci”. È “low skilled” più di un italiano su quattro e l'Italia ricopre una tra le posizioni peggiori nell'indagine Piaac, penultima in Europa per livello di competenze (preceduta solo dalla Turchia) e quartultima su scala mondiale rispetto ai 33 paesi analizzati dall'Ocse (con performance migliori solo di Cile e Indonesia).

    Non si parla in questo caso di persone incapaci di leggere o fare di conto, piuttosto di persone prive «delle competenze richieste in varie situazioni della vita quotidiana», sia essa «lavorativa, relativa al tempo libero», oppure «legata ai linguaggi delle nuove tecnologie», precisa Simona Mineo, ricercatore Inapp, l'Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche (ex Isfol).

    «Chi è analfabeta funzionale non è incapace di leggere - continua Mineo, che è stata anche National data manager per l’indagine OCSE-PIAAC condotta in Italia - ma, pur essendo in grado di capire testi molto semplici, non riesce a elaborarne e utilizzarne le informazioni». Un monito che riguarda gli italiani tutti perché, come conferma all'Espresso Friedrich Huebler, massimo esperto di alfabetizzazione per l'Istituto di statistica dell'Unesco: «Senza pratica, le capacità legate all'alfabetizzazione possono essere perse anno dopo anno». Come a dire che analfabeti non si nasce ma si diventa.

    Sui libri, l'Europa ha i più alti tassi di alfabetizzazione

    Secondo l'Unesco, nel 2015 gli analfabeti in Italia erano pari all'1 per cento, percentuale che si riduce allo 0,1 se si considera solo la popolazione dai 15 ai 24 anni. «In molte regioni industrializzate, come l'Europa, la maggior parte della popolazione è capace di leggere e scrivere - continua Huebler - L'enfasi, infatti, è da porre sull'analfabetismo funzionale e sui livelli di alfabetizzazione piuttosto che sulle basiche capacità di lettura e scrittura».

    Al centro dell'analisi dell'esperto dell'Unesco ci sono proprio i dati dell'analisi Piaac, che mostrano come, nonostante l'Italia abbia un tasso di alfabetizzazione che sfiora il 100 per cento, la percentuale di analfabeti funzionali è la più alta dell'Unione europea. D'altronde, «anche se la maggior parte degli abitanti dei paesi ricchi è capace di leggere e scrivere - chiude Huebler - non si deve dimenticare come i livelli di alfabetizzazione non sono gli stessi per tutta la popolazione».

    L'identikit dei nuovi analfabeti in Italia.

    Solo il 10 percento è disoccupato, fanno lavori manuali e routinari, poco più della metà sono uomini e uno su tre degli analfabeti funzionali italiani è over 55. Tra i soggetti più colpiti le fasce culturalmente più deboli come i pensionati e le persone che svolgono un lavoro domestico non retribuito mentre, per quanto riguarda la distribuzione geografica, il sud e il nord ovest del Paese sono le regioni con le percentuali più alte, visto che da sole ospitano più del 60 percento dei low skilled italiani.

    A tracciare l'identikit dell'analfabeta funzionale italiano sono le elaborazioni dell'Osservatorio Isfol raccolte nell'articolo “I low skilled in Italia”, studio nato per indagare su quella nutrita parte della popolazione italiana che nell'indagine dell'Ocse ha mostrato di possedere bassissime competenze. Tra i risultati più interessanti, l'aumento della percentuale di low skilled al crescere dell’età, passando dal 20 percento della fascia 16-24 anni all'oltre 41 percento degli over 55. «Questo perché chi è nato prima del 1953 non ha usufruito della scolarità obbligatoria - continua la ricercatrice Mineo - ma anche perché nelle fasce più adulte si soffre maggiormente dell’analfabetismo di ritorno». Ovvero, «se non sono coltivate, vengono perse anche quelle competenze minime acquisite durante le fasi di formazione e di inserimento nel mondo del lavoro». Andamento inverso per gli high skilled: in altre parole, mano a mano che i mesi passano sul calendario, aumentano le possibilità di diventare analfabeti funzionali.

    Balsamo contro la perdita delle nostre capacità può essere tornare tra i banchi di scuola da adulti o partecipare attivamente al mondo del lavoro. Eppure, non ogni occupazione può “salvarci” dall'essere potenziali analfabeti funzionali visto che solo alcune attività garantiscono il mantenimento se non addirittura lo sviluppo di capacità e conoscenze. «Sono le skilled occupations, ovvero professioni intellettuali, scientifiche e tecniche» precisa Simona Mineo.

    Quale quindi la causa delle cattive performance degli over 50? Colpa dei loro brevi percorsi scolastici e di un precoce ingresso nel mercato del lavoro, ma «ciò che conta più di tutto è la mancanza di una costante 'manutenzione' e 'coltivazione' delle competenze». È l'assenza di allenamento mentale, quindi, la causa che la ricercatrice individua per il declino della popolazione più anziana. «Si dovrebbe garantire un invecchiamento attivo», e sostenere attività di apprendimento in età adulta. «Iniziative che purtroppo, in Italia, continuano ad essere estremamente ridotte». Contraltare degli over 50 sono i Neet (i giovani tra i 16 e i 24 anni che non stanno né lavorando né studiando), visto che secondo lo studio di Inapp coloro che appartengono a questa categoria hanno una probabilità cinque volte maggiore di avere bassi livelli di competenza.

    Leggi l'articolo originale.

  • Luigi Roberto Biasio, Gilberto Corbellini – Morire di ignoranza, Il Sole 24 ORE, 17/03/2017
  • Mimmo Cándito – Il 70 per cento degli italiani è analfabeta (legge, guarda, ascolta, ma non capisce), La Stampa, 10/01/2017

    Non è affatto un titolo sparato, per impressionare; anzi, è un titolo riduttivo rispetto alla realtà, che avvicina la cifra autentica all'80 per cento. E questo vuol dire che tra la gente che abbiamo attorno a noi, al caffè, negli uffici, nella metropolitana, nel bar, nel negozio sotto casa, più di 3 di loro su 4 sono analfabeti: sembrano “normali” anch'essi, discutono con noi, fanno il loro lavoro, parlano di politica e di sport, sbrigano le loro faccende senza apparenti difficoltà, non li distinguiamo con alcuna evidenza da quell’unico di loro che non è analfabeta, e però sono “diversi”.  Quel è questa loro diversità? Che sono incapaci di ricostruire ciò che hanno appena ascoltato, o letto, o guardato in tv e sul computer. Sono incapaci! La (relativa) complessità della realtà gli sfugge, colgono soltanto barlumi, segni netti ma semplici, lampi di parole e di significati privi tuttavia di organizzazione logica, razionale, riflessiva. Non sono certamente analfabeti “strumentali”, bene o male sanno leggere anch’essi e – più o meno – sanno tuttora far di conto (comunque c'è un 5 per cento della popolazione italiana che ancora oggi è analfabeta strutturale, “incapace di decifrare qualsivoglia lettera o cifra”); ma essi sono analfabeti “funzionali”, si trovano cioè in un'area che sta al di sotto del livello minimo di comprensione nella lettura o nell'ascolto di un testo di media difficoltà. Hanno perduto la funzione del comprendere, e spesso – quasi sempre – non se ne rendono nemmeno conto. Quando si dice che quella di oggi non è più la civiltà della ragione ma la civiltà della emozione, si dice anche di questo. E quando Bauman (morto ieri, grazie a lui per ciò che ci ha dato) diceva che, indipendentemente da qualsiasi nostro comportamento, ogni cosa é intessuta in un discorso, anche l’ “analfabetismo” sta nel “discorso”. Cioè disegna un profilo di società nella quale la competenza minima per individuare una capacità di articolazione del proprio ruolo di “cittadino” - di soggetto consapevole del proprio ruolo sociale, disponibile a usare questo ruolo nel pieno controllo della interrelazione con ogni atto pubblico e privato – questa competenza appartiene soltanto al 20 per cento dei nostri connazionali. È sconcertante, e facciamo fatica ad accettarlo. Ma gli strumenti scientifici di cui la linguistica si serve per analizzare il rapporto tra “messaggio” e “comprensione” hanno una evidenza drammatica. Non è un problema soltanto italiano. L’evoluzione delle tecnologie elettroniche e la sostituzione del messaggio letterale con quello iconico stanno modificando un po' dovunque il livello di comprensione; ma se le percentuali attribuibili ad altre società (anche Francia, Germania, Inghilterra, o anche gli Usa, che non sono affatto il modello metropolitano del nostro immaginario ma piuttosto un'ampia America profonda, incolta, ignorante, estremamente provinciale) se anche quelle societá denunciano incoerenze e ritardi, mai si avvicinano a queste angosciose latitudini, che appartengono soltanto all'Italia, e alla Spagna. Il “discorso” è complesso, e ha radici profonde, sociali e politiche. Se prendiamo in mano i numeri, con il loro peso che non ammette ambiguità e approssimazioni, dobbiamo ricordare che nel nostro paese circa il 25% della popolazione non ha alcun titolo di studio o ha, al massimo, la licenza della scuola elementare. Non è che la scuola renda intelligenti, e però fornisce strumenti sempre più raffinati – quanto più avanti si vada nello studio - per realizzare pienamente le proprie qualità individuali. Vi sono anche laureati e diplomati che sono autentiche bestie, e però è molto più probabile trovare “bestie” tra coloro che laurea e diploma non sanno nemmeno che cosa siano. (La percentuale dei laureati in Italia, poi, è poco più della metà dei paesi più sviluppati.)

    Diceva Tullio De Mauro, il più noto linguista italiano, ministro anche della Pubblica Istruzione (incarico che siamo capaci di assegnare perfino a chi non ha né laurea né diploma – e questo dato rientra sempre nel “discorso”), che più del 50 per cento degli italiani si informa (o non si informa), vota (o non vota), lavora (o non lavora), seguendo soltanto una capacità di analisi elementare: una capacità di analisi, quindi, che non solo sfugge le complessità, ma che anche davanti a un evento complesso (la crisi economica, le guerre, la politica nazionale o internazionale) è capace di una comprensione appena basilare.

    Un dato impressionante ce l'ha fatto conoscere ieri l'Istat: il 18,6 per cento degli italiani – cioè quasi uno su 5 – lo scorso anno non ha mai aperto un libro o un giornale, non è mai andato al cinema o al teatro o a un concerto, e neppure allo stadio, o a ballare. Ha vissuto prevalentemente per la televisione come strumento informativo fondamentale, e non é azzardato credere – visti i dati di riferimento della scolarizzazione – che la sua comprensione della realtà lo piazzi a pieno titolo in quell'80 per cento di analfabeti funzionali (che riguarda comunque un universo sociale drammaticamente molto più ampio di questa pur amara marginalità). E da qui, poi, il livello e il grado della partecipazione alla vita della società, le scelte e gli stili di vita, il voto elettorale, la reazione solo di pancia – mai riflessiva – ai messaggi dove la realtà si copre spesso con la passione, l'informazione e la sua contaminazione con la pubblicità e tant'altro che ben si comprende. È il “discorso”.

    Il “discorso” ha al centro la scuola, il sistema educativo del paese, le scelte e gli investimenti per la costruzione di un modello funzionale che superi il ritardo con cui dobbiamo misurarci in un mondo sempre più aperto e sempre più competitivo. Se noi destiniamo alla ricerca la metà di un paese come la Bulgaria, evidentemente c'è un “discorso” da riconsiderare.

    (Questo testo è un omaggio a Tullio De Mauro, morto nei giorni scorsi, che ha portato la linguistica fuori dalle aule dell'accademia, e l'ha resa uno degli strumenti fondamentali di analisi di una società)

    Leggi l'articolo originale.

  • Paola Pinna – Analfabetismo funzionale, in Italia dati allarmanti, Camera dei Deputati, Mozione 1/00727 del 11/02/2015

    La Camera,

    premesso che:

    • l’analfabetismo funzionale consiste nell’incapacità a usare in modo efficace le competenze di base, quali lettura, scrittura e calcolo, per muoversi autonomamente nella società contemporanea. L’analfabeta funzionale è apparentemente autonomo e non è consapevole del problema ma in realtà non è in grado «di comprendere, valutare, usare e farsi coinvolgere con testi scritti per intervenire attivamente nella società, per raggiungere i propri obiettivi e per sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità». Un analfabeta funzio- nale interpreta il mondo basandosi esclusivamente sulle sue esperienze dirette;
    • nel 2013 sono stati diffusi i risultati dell’indagine internazionale PIAAC (Programme for the international assessment of adult competencies) sulle competenze degli adulti. La ricerca, promossa da Ocse (Organizzazio- ne per la cooperazione e lo sviluppo economico), è stata svolta nel periodo 2011-2012 e analizza il livello di competenze fondamentali della popolazione tra i 16 e i 65 anni in 24 Paesi;
    • le competenze prese in considerazione dal programma sono quelle fondamentali per la crescita individua- le, la partecipazione economica e l’inclusione sociale (literacy) e quelle per affrontare e gestire problemi di natura matematica nelle diverse situazioni della vita adulta (numeracy). Specificatamente, come indicato nel research paper «Le competenze per vivere e lavorare oggi. Principali evidenze dall’Indagine PIAAC», la literacy è definita come «l’interesse, l’attitudine e l’abilità degli individui ad utilizzare in modo appropriato gli strumenti socio-culturali, tra cui la tecnologia digitale e gli strumenti di comunicazione per accedere a, gestire, integrare e valutare informazioni, costruire nuove conoscenze e comunicare con gli altri, al fine di partecipare più efficacemente alla vita sociale»; la numeracy è definita come «l’abilità di accedere a, utilizzare, interpretare e comunicare informazioni e idee matematiche, per affrontare e gestire problemi di natura matematica nelle diverse situazioni della vita adulta»;
    • nell’ambito dell’indagine sono stati definiti sei livelli di proficiency, basati su intervalli di punteggi che variano su una scala da 0 a 500 punti. Il livello 1 indica una modestissima competenza, al limite dell’analfabetismo, mentre i livelli 4 e 5 indicano la piena padronanza del dominio di competenza. Il raggiungimento del livello tre è considerato come elemento minimo indispensabile per un positivo inserimento nelle dinamiche sociali, economiche e occupazionali;
    • in Italia l’indagine è stata condotta, su incarico del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, dall’ISFOL (Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori). Dal confronto internazionale, rispetto alla media dei Paesi OCSE, l’Italia si colloca significativamente al di sotto della media e il deficit del Paese è più accentuato al sud e nelle isole. Gli adulti italiani (16-65 anni) si situano per la maggior parte al livello 2 sia nel dominio di literacy (42,3 per cento) che nel dominio di numeracy (39,0 per cento), il livello 3 o superiore è raggiunto dal 29,8 per cento della popolazione in literacy e dal 28,9 per cento in numeracy, mentre i più bassi livelli di performance vengono raggiunti dal 27,9 per cento della popolazione in literacy e dal 31,9 per cento in numeracy;
    • Tullio De Mauro, professore emerito di linguistica generale nella facoltà di scienze umanistiche dell’Università di Roma La Sapienza, ribadisce che più della metà degli italiani ha difficoltà a comprendere l’informazione scritta e molti anche quella parlata. I dati sopracitati apparentemente sterili indicano una situazione che potrebbe avere conseguenze pericolose poiché si tratta di una larga fetta di popolazione concretamente non in grado di ricevere e valutare in modo oggettivo nuovi fatti e suscettibile d’essere pilotata mediante populismo e mistificazione della realtà;
    • fra i fattori che hanno contribuito a determinare questa situazione negativa, e che si sono rivelati al contempo cause e conseguenze dello stesso analfabetismo funzionale, si inseriscono: le falle del sistema scolastico italiano, l’ampliarsi di quella fascia di giovani che non sono né occupati né inseriti in un percorso formativo, il servizio pubblico radiotelevisivo che ha gradualmente perso la sua funzione educativa e culturale e infine l’uso inconsapevole di internet. Quest’ultimo fattore costituisce un’altra forma di analfabetismo, associabile a quella funzionale, ovvero l’analfabetismo digitale inteso come mancanza di competenze digitali e quindi incapacità di saper utilizzare le tecnologie di informazione e comunicazione per reperire, valutare, conserva- re, produrre, presentare e scambiare informazioni nonché per comunicare e partecipare a reti collaborative tramite internet;
    • la situazione dell’istruzione in Italia rivela un livello molto basso in confronto agli standard internazionali. Con la crisi nel nostro Paese vi è stato un vertiginoso calo del tasso di scolarità nelle scuole superiori: dal 2007 al 2011 si è passati dal 94,9 per cento al 91,4 per cento di iscritti, come rivelano i dati del report annuale «Italia in cifre 2014» elaborato dall’Istat. Il 30 per cento dei giovani fra i 25 e 34 anni non ha un diploma di scuola secondaria, contro meno del 10 per cento nella media Ocse, e il numero degli immatricolati nelle università italiane è diminuito di 25.177 unità dall’anno accademico 2011/2012 al 2012/2013 (ultimi dati disponibili). Colmare questo divario nei livelli di scolarizzazione fra Italia e altri Paesi dovrebbe essere un imperativo. Tuttavia, dal 2008 con l’inizio della crisi economica la spesa per istruzione è stata ridotta (e ciò è ancora più grave se si tiene conto che si partiva da livelli di spesa che erano già inferiori a quelli di molti Paesi avanzati) e ad oggi fra gli Stati europei membri dell’Ocse l’Italia è il Paese che, in rapporto al proprio Pil, spende di meno nell’istruzione: 4,6 per cento;
    • i dati sulla scuola e l’università non devono essere sottovalutati; come affermava Calamandrei, padre costituente, è con l’istruzione scolastica che si formano le coscienze dei cittadini e si elabora la consapevolezza dei valori morali, «dalla scuola dipende come sarà domani il Parlamento, come funzionerà domani la Magistratura: cioè quale sarà la coscienza e la competenza di quegli uomini che saranno domani i legislatori, i governanti e i giudici del nostro paese»;
    • scarse abilità e insufficienti competenze chiave vanno di pari passo con l’inattività, è il caso dei NEET (not in education, employment or training): giovani non più inseriti in un percorso scolastico o formativo ma neppure impegnati in un’attività lavorativa, che disinvestono sulle proprie capacità senza accrescerle e utilizzarle. In questo gruppo di giovani un prolungato allontanamento dal mercato del lavoro e dal sistema formativo può comportare il rischio di una maggiore difficoltà di reinserimento e una sorta di scollegamento dalla realtà. I risultati delle ricerche Istat in proposito non sono confortanti, nell’arco degli ultimi dieci anni (2004- 2014) il dato NEET, fra i 18 e 29 anni, in termini percentuali è passato dal 21,9 al 32,5;
    • come anticipato, un ruolo determinante lo ricopre anche il sistema di servizio pubblico radiotelevisivo che, come si evince anche dai documenti europei – il Protocollo sul sistema di radiodiffusione pubblica allegato al Trattato di Amsterdam (1997) e le direttive sulla Televisione senza frontiere (1987, poi modificata nel 2007) e sui Servizi di media audiovisivi (2010) –, dovrebbe avere una funzione culturale rispondendo ai bisogni informativi, educativi e di intrattenimento dei cittadini. Tuttavia, questo sistema è sostanzialmente entrato in crisi. In special modo la televisione pubblica sta tendendo sempre più verso una programmazione tipica della televisione privata, per sua natura commerciale, ponendo al primo posto l’auditel a discapito della sua funzione educativa;
    • infine, vi è l’uso non consapevole da parte degli analfabeti funzionali dei social network e della rete, laddove il connubio fra mancanza di strumenti cognitivi e la sterminata mole di informazioni non verificate genera un cortocircuito. False notizie, non notizie, preconcetti, decontestualizzazioni e stereotipi producono effetti esplosivi in un Paese in crisi sociale, economica e morale come l’Italia, divengono senso comune e realtà per milioni di persone. In taluni casi ciò determina l’insorgere e il fomentare sentimenti di odio e manifestazioni di violenza, ne sono un esempio i recenti fatti di cronaca che hanno visto l’accanimento mediatico, ad avviso dei firmatari del presente atto disumano, nei confronti delle due cooperanti italiane, Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, rilasciate dopo una prigionia di quasi sette mesi;
    • l’attuale tendenza, riscontrabile specialmente nell’ambito politico, ma non solo, alla riduzione della complessità a slogan incrementa questi rischi, si delinea così un meccanismo pericoloso che si nutre di ignoranza, rabbia e disperazione e che orienta i malumori della popolazione senza valutare e tenere conto delle conseguenze nefaste,

    impegna il Governo:

    • a rivedere il piano dell’istruzione affiancando all’insegnamento dogmatico gli strumenti per decifrare e comprendere, valutare e usare informazioni, di origine scritta o orale, per intervenire attiva- mente nella società, in tale ambito valorizzando l’insegnamento dell’educazione civica affinché i giovani imparino fin da subito il convivere civile e facciano proprio il senso di responsabilità verso la cosa pubblica;
    • ad implementare, promuovere e diffondere il programma nazionale per la cultura, la formazione e le competenze digitali, mettendo in atto interventi di alfabetizzazione digitale e potenziando culture e conoscenze già presenti;
    • ad agire senza indugio per invertire il trend dei cosiddetti NEET con piani per l’occupazione giovanile e incentivazione allo studio, coinvolgendo scuola, aziende e parti sociali sull’onda della programmazione europea a favore dei giovani;
    • ad operare, per quanto di competenza, affinché il sistema radiotelevisivo italiano sia reinvestito della sua originaria funzione culturale, formativa e educativa.

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